L’impronta liquida del nostro impatto

Desertificazione

Il concetto di “impronta” ha una connotazione potente e universale: richiama l’idea di un segno lasciato sul terreno, una traccia visibile del nostro passaggio.

Quando parliamo di impronta idrica, ci riferiamo metaforicamente all’impatto che le nostre attività esercitano sulle risorse idriche del pianeta: tanto più grande è il segno che lasciamo, maggiore è la nostra responsabilità nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. In un mondo in cui l’acqua è una risorsa sempre più scarsa e preziosa, misurare l’impronta idrica diventa un’azione essenziale per comprendere, monitorare e ridurre il consumo e l’inquinamento di questa risorsa vitale.

Dal punto di vista tecnico, l’impronta idrica è un indicatore che valuta l’uso diretto e indiretto di acqua dolce per la produzione, l’utilizzo e il fine vita di beni e servizi. Ad esempio, per la produzione di un capo d’abbigliamento, si tiene conto della risorsa consumata sia direttamente nel processo produttivo sia indirettamente per generare l’energia elettrica necessaria alla produzione stessa: questa distinzione viene operata per tutte le fasi del ciclo di vita di un prodotto/servizio.

In base all’utilizzo che se ne fa, la risorsa viene classificata in tre categorie, distinte per colore. Con acqua blu intendiamo l’acqua dolce prelevata da fonti superficiali e sotterranee, utilizzata per irrigazione, processi industriali e consumi domestici. L’acqua verde è l’acqua piovana che viene immagazzinata nel suolo e utilizzata dalle colture attraverso l’evapotraspirazione. Infine, l’acqua grigia coincide con il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti prodotti dalle attività umane e per riportarli a concentrazioni compatibili con gli standard ambientali. Ogni settore economico ha un’impronta idrica specifica e spesso significativa: dall’agricoltura – che rappresenta circa il 70% del consumo globale di acqua dolce – all’industria (20%) – con i settori tessile, chimico e metallurgico in cima alla classifica –, all’uso civile e domestico, che contribuisce per il 10%. In Italia queste percentuali sono leggermente diverse rispetto alle stime globali, con l’uso civile e domestico che si attesta al 20-30% dei consumi totali di acqua dolce.

Quando parliamo di quest’ultima destinazione d’uso facciamo riferimento ai consumi di acqua dolce delle persone e del settore pubblico. I numeri presentati ci ricordano che le nostre scelte quotidiane, come il consumo di cibi particolarmente idro-esigenti o l’uso eccessivo di acqua per scopi domestici, hanno un peso. Le città, dal canto loro, rappresentano veri e propri ecosistemi complessi dove il consumo di acqua blu, verde e grigia si intreccia con la gestione delle risorse idriche, influenzando il benessere delle comunità e l’ambiente circostante. Misurare l’impronta idrica dei centri abitati è fondamentale per pianificare uno sviluppo sostenibile e promuovere interventi mirati a migliorare l’efficienza idrica.

Ma come si calcola l’impronta idrica?

A livello normativo, la ISO 14046:2014 è il riferimento internazionale per la quantificazione dell’impronta idrica. Questa norma standardizza il metodo per valutare gli impatti ambientali legati al consumo e all’inquinamento dell’acqua lungo l’intero ciclo di vita di un prodotto, processo o organizzazione. Attraverso l’approccio del Life Cycle Assessment (LCA), la ISO 14046 consente di analizzare e confrontare in modo oggettivo l’impatto idrico di diverse attività, promuovendo scelte più consapevoli e sostenibili. La sua adozione è un passo cruciale per aziende e organizzazioni che desiderano migliorare le proprie performance ambientali e rispondere alle crescenti richieste di trasparenza da parte di consumatori e stakeholder.

L’impronta idrica, dunque, non è soltanto uno strumento di misurazione, ma un potente catalizzatore di cambiamento. Analizzare l’impatto delle nostre azioni sulle risorse idriche significa riconoscere il valore dell’acqua come bene comune, fondamentale per la vita e per il benessere delle generazioni future. Non si tratta infatti di una merce come le altre: è allo stesso tempo un diritto universale e un patrimonio collettivo, essenziale per garantire dignità e sopravvivenza ad ogni essere vivente. Il concetto di acqua come bene comune si fonda sull’idea che questa risorsa debba essere accessibile a tutti e gestita in modo sostenibile, evitando speculazioni, sprechi e appropriazioni che possano penalizzare le comunità più vulnerabili.

Nei contesti urbani e rurali, la gestione dell’acqua come bene comune implica la creazione di infrastrutture efficienti, la promozione di pratiche agricole e industriali sostenibili e la tutela degli ecosistemi acquatici. Significa riconoscere che l’acqua non appartiene a nessuno in particolare, ma è responsabilità di tutti. Questo approccio richiede un cambiamento culturale e sistemico, che coinvolga cittadini, governi e imprese in un’azione collettiva. Comprendere e ridurre la nostra impronta idrica è un atto di responsabilità verso il pianeta, un impegno che coinvolge individui, aziende e governi in un percorso condiviso verso la sostenibilità.

Di Anna Filippucci