
Rifugiati climatici: il diritto di esistere
C’è una parola su cui riflettere ed è “esilio”. Non quello scelto, non quello che ha il sapore dell’ avventura, ma l’esilio forzato di chi lascia la propria terra perché resa invivibile da condizioni climatiche estreme. Dietro a questo movimento di persone c’è un termine che interpella la coscienza di tutti: migranti climatici.
Si parla di migranti climatici quando individui, famiglie e intere comunità sono costrette a spostarsi perché i loro territori non offrono più le condizioni minime di sopravvivenza. Le cause sono molteplici: desertificazione, innalzamento del livello del mare, uragani sempre più violenti, perdita di fonti d’acqua. Non sono spostamenti cercati, ma obbligati, e per questo profondamente diversi da altre forme di migrazione
Quando un raccolto non regge più, quando l’acqua manca o invade, quando eventi estremi si ripetono, lo spostamento non è più una scelta. È in questo spazio che nasce la migrazione climatica. Nel solo 2024 i disastri hanno generato 45,8 milioni di nuovi spostamenti interni nel mondo (dato IDMC – Internal Displacement Monitoring Centre – riportato da UNHCR – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).
E non è un’onda passeggera: a fine 2023 vivevano ancora 7,7 milioni di persone sfollate a causa di disastri in 82 Paesi e territori.
Le proiezioni convergono su un ordine di grandezza che non possiamo ignorare. Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050 i migranti climatici interni potrebbero arrivare fino a 216 milioni nelle sei regioni analizzate; gli “hotspot” potrebbero emergere già dal 2030 e intensificarsi al 2050. Azioni rapide e inclusive possono ridurre drasticamente queste cifre.
L’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, richiama la stessa stima nei propri aggiornamenti, a conferma di un quadro condiviso all’interno dell’ONU.
Qui si apre il nodo decisivo. La Convenzione di Ginevra del 1951 tutela chi fugge da persecuzioni; non contempla esplicitamente chi scappa da condizioni climatiche estreme. Nel 2020 il Comitato ONU per i Diritti Umani ha affermato che respingere una persona verso luoghi dove il cambiamento climatico minaccia la vita può violare il principio di non-refoulement, ovvero dei respingimenti. È un precedente importante, anche se non crea, da solo, un nuovo status di “rifugiato climatico”.
Intanto UNHCR lavora per proteggere le persone forzate alla fuga in contesti di rischio climatico e per sostenere gli Stati nello sviluppo di leggi e politiche sull’internal displacement, ovvero sugli spostamenti interni.
Riconoscere chi è costretto a migrare per il clima non è un esercizio lessicale. È dare tutela effettiva a persone che pagano un prezzo alto per uno squilibrio prodotto su scala globale. Servono strumenti giuridici aggiornati, canali di protezione (anche temporanea), sistemi di allerta e piani di adattamento che riducano lo sradicamento prima che accada.
I numeri raccontano un presente già in movimento e un futuro scritto dalle scelte dei prossimi anni: hotspot entro il 2030, fino a 216 milioni di migranti climatici interni al 2050, con decine di milioni di nuovi spostamenti ogni anno legati ai disastri. La risposta deve essere coerente: prevenzione e adattamento nei territori, protezione giuridica oltre i confini dell’attuale definizione di rifugiato, cooperazione internazionale che trasformi il rischio in diritto.
Non è troppo tardi
L’assenza di un quadro giuridico chiaro non deve tradursi in indifferenza. I rifugiati climatici ci ricordano che il cambiamento climatico non è un fenomeno lontano, ma già presente. La loro voce è una domanda di riconoscimento e dignità, e insieme un monito per tutti noi: non c’è diritto più universale del diritto a restare nella propria terra.
Alberto Marzetta
Fonte: www.envi.info