Ci salveremo solo insieme

Ci salveremo solo insieme

Un pianeta a rischio climatico, provato da una pandemia che dura ormai da quasi due anni. Relazioni difficili, a livello personale ma anche globale, con i Paesi sviluppati da una parte e il resto del mondo dall’altro. La Cop 26 ha fotografato questa contraddizione: la sostenibilità sarà globale o non sarà davvero risolutiva, ma superare le distanze è un percorso ancora lungo e non scontato. Mauro Magatti, professore di Sociologia all’Università Cattolica, editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire, studia le trasformazioni sociali e culturali del capitalismo contemporaneo, sistema in crisi sia dal punto di vista economico che sociale. All’attività di studio e ricerca affianca l’impegno personale come Presidente dell’Alleanza per la Generatività sociale, centro di ricerca, rete di imprese e molto altro (generativita.it). All’indomani dell’evento di Glasgow ha accettato di parlarne con Riflessi. 

“La Cop 26 ha mostrato che non c’è un governo del mondo, ma che si può procedere solo con la faticosa costruzione di un dialogo, fatto di ascolto reciproco, per capire come andare tutti nella stessa direzione. Questo non è mai stato fatto prima, oggi le sovranità sono tutte in relazione. La Cop è riuscita a metà, occorre continuare a lavorare, non basta la buona volontà, servono percorsi istituzionali nuovi, siamo in un secolo nuovo.  

Sostenibilità significa riconoscere che l’attività economica deve imparare a considerare non solo gli effetti immediati ma anche quelli a lungo termine. Ci siamo illusi che la crescita illimitata, come crescita quantitativa, portasse la felicità. Invece ha portato tanti problemi drammatici dal punto di vista della sostenibilità. E’ una questione drammatica, da prendere sul serio, continuando a produrre ma tenendo conto delle conseguenze sul lungo periodo”.

Per sostenere la causa ambientale funziona usare toni catastrofici? 

Il sociologo tedesco Ulrich Beck scrisse La società del rischio. C’è differenza fra pericolo e rischio: nel secondo non percepiamo una minaccia con i nostri sensi, ma possiamo diventarne consapevoli attraverso studi scientifici. La società del rischio funziona diversamente da tutte le precedenti: un esperto sostiene una cosa, un secondo esperto un’altra. Dobbiamo convivere con questo problema, sapere che la verità non si trova scritta da nessuna parte. Dobbiamo trovare un equilibrio fra problemi immediati e futuri, mentre ci troviamo su un terreno cedevole. Raggiungere un accordo è già difficile in generale, sapendo che nessuno ha la verità in tasca è bene non creare contrapposizioni troppo violente. E’ più utile sforzarci di costruire un dialogo sensato e cercare di capirci, come insegnava Beck 50 anni fa: parlare con misura e ascoltare.

Il Covid ha trasformato le relazioni umane?

La pandemia ci ha mostrato quanto sia radicato il pregiudizio individualistico e come sia difficile recuperare il nostro essere in relazione. La realtà ci costringerà a prenderne atto che nessuno si salva da solo. Dobbiamo fare di tutto per sviluppare questa consapevolezza, bisogna lavorare incessantemente per qualche centimetro di consapevolezza. Il Covid ci dice quanto sia difficile, parlare di ripartenza è inopportuno: è giusto guardare avanti, ma non dobbiamo dimenticare e tornare a comportarci come prima.  Chiediamoci cosa possiamo correggere nel nostro modo di produrre. Serve un salto epocale per andare avanti, siamo in un secolo nuovo. 

Occorre ritrovare il senso di comunità?

Non nutro un grande trasporto verso il concetto di comunità. La nostra società è fortemente individualizzata, abbiamo nostalgia della comunità ma è irrealistico, perché la comunità viene fuori con tratti regressivi, come populismo. La Cop 26 ci ha aiutato a riconoscere che siamo accomunati in quanto abitanti di questa terra, ma siamo lontanissimi dal condividere ed elaborare questa comune appartenenza al pianeta. La comunità si basa su relazioni molto inclusive, non è una prospettiva che ci aiuta in questo senso.  

La storia degli ultimi secoli è molto individualista, è un modello che sta producendo tanti disastri. Dobbiamo correre ai ripari ma la comunità non è la strada: occorre recuperare il senso di essere costituiti dall’essere in relazione con gli altri. Serve per il Covid, per il clima, fra le generazioni. Pensarci come individui indipendenti è ideologico, siamo in quanto intessiamo relazioni. La comunità è un grande io che diventa noi, ma provocando anche molti danni, pensiamo ai fondamentalismi religiosi. Siamo talmente individualisti che non possiamo tornare alla comunità, che oggi sarebbe solo regressiva. Occorre trovare un altro modo di rendere evidente che siamo legati gli uni agli altri.

La generatività è una strada possibile?

La generatività nasce dall’idea che l’altro non è sotto il nostro controllo, è riconoscere e mettere a tema la nostra struttura relazionale. Possiamo fare tante cose, ma dobbiamo uscire da questa idea tipicamente moderna che la natura e gli altri sono un materiale che possiamo usare. Una relazione aperta è la sostanza della nostra vita insieme, costituisce le premesse di una vera alleanza. Dobbiamo ricostruire la consapevolezza che siamo responsabili delle relazioni a cui diamo vita

Vanna Toninelli