Naviga i luoghi di nessuno dove la plastica regna indisturbata

Alex Bellini, esploratore: ‘avevamo un progetto per difendere il Po, ma nessuno si sente responsabile. Lo realizzeremo a Kanpur’. Cosa aiuta l’ambiente? ‘La gentilezza’.    

 

Le barche se le costruisce da solo, con i rifiuti che trova sul posto. Assi di legno, bidoni di latta… Una volta addirittura l’anta di una vecchia porta, abbandonata da chissà chi sul greto del Fiume delle Perle e assemblata con altri pezzi di fortuna a formare la zattera con cui Alex Bellini, 45 anni, valtellinese con la vocazione a esplorare il mondo, è sceso remando verso il Mare Cinese del Sud. Era una tappa di “10 Rivers, 1 Ocean”, dieci fiumi e un solo oceano: un viaggio sui corsi d’acqua più grandi e inquinati del mondo, per vedere e raccontare da dove arriva il 90% della plastica che finisce in mare. E che è tanta, tantissima: almeno 10 milioni di tonnellate ogni anno (ma ci sono stime che arrivano a 12), destinate a restare in superficie, intossicare i fondali, sminuzzarsi in frammenti. Inquinare.

A quel progetto, Bellini è arrivato dopo una carriera costellata di imprese: dalla Marathon des Sables (250 chilometri di corsa nel Sahara) alla marcia in slitta nel Vatnajokull islandese (il più grande ghiacciaio d’Europa); dagli 11mila chilometri vogati in solitaria tra Mediterraneo e Atlantico del 2005 alla traversata del Pacifico di tre anni dopo, sempre a remi e da solo (dal Perù all’Australia, 18mila chilometri di mare in 294 giorni). È come se fare i conti con i suoi limiti gli avesse aperto una prospettiva: testimoniare i limiti e la fragilità degli ecosistemi naturali. E la responsabilità enorme che abbiamo, nel preservarli.

Da qui l’idea dei fiumi. Dei dieci previsti, ne ha percorsi cinque: Gange, Nilo, Fiume delle Perle, Mekong e Po. In mezzo, nel 2019, una tappa nel GPGP, il Great Pacific Garbage Patch, la famosa “isola di plastica” piazzata in mezzo al Pacifico settentrionale, tra San Francisco e le Hawaii: 100mila tonnellate di detriti solo in superficie e un’estensione di un milione e mezzo di chilometri quadrati.

Partiamo da lì, allora: che effetto le ha fatto arrivarci?

Stranissimo. Mi ha dato la sensazione di un naufragio. Il Garbage Patch non è un’isola, anche se la chiamano così. È più una zuppa di plastica: un concentrato di frammenti di piccole e grandi dimensioni, della concentrazione variabile tra i 10 e i 100 chili per chilometro quadrato. Non è una densità enorme: c’è ancora spazio per vedere l’acqua. Ma è plastica che lì non dovrebbe starci. È scappata dai sistemi di raccolta, è stata gettata per le tante ragioni per cui ci si sbarazza dei rifiuti in tutto il mondo. E a vederla uno perde fiducia. Sente scoramento, frustrazione… Quasi angoscia.

Perché?

Il mare aperto è mare di nessuno. Quindi la plastica resta lì: nessuno sente la responsabilità di andarsela a prendere. Ma ho avvertito anche una forma più sottile di responsabilità mia, personale. Non potevo escludere che qualcosa di quella plastica potesse arrivare da me, da qualche rifiuto che avevo buttato io magari anni prima, a migliaia di chilometri di distanza. Improbabile, ma possibile, capisce? Questo mi ha colpito molto.

Come si affronta un problema del genere?

Tecnicamente non ci sono soluzioni, se non quella di evitare che la plastica finisca nell’oceano. Ripescarla è ancora più difficile, anche se ci sono iniziative che funzionano: penso al lavoro di The Ocean Cleanup, la ong olandese che la recupera con delle reti gigantesche, e ad altre. Ma la via maestra è muoversi prima.

L’oceano è imponente, dà l’idea di infinito. Perché facciamo così fatica a renderci conto che è anche molto fragile?

Per molto tempo lo abbiamo considerato come un grande buco nero, in cui tutto, prima o poi, era destinato a sparire. Abbiamo sempre avuto una relazione di amore e odio con l’oceano. O amore e opportunismo, se vuole: era tanto grande da poter nascondere le brutture del nostro pianeta, e quindi diventava la discarica a cielo aperto del mondo. Ora siamo più consapevoli che è l’acqua a darci la vita: il 50% dell’ossigeno non arriva dalle piante, ma dai mari. Ma continuiamo a fare fatica davanti alla complessità del problema ecologico. Il filosofo inglese Timothy Morton parla di “iperoggetti”: fenomeni la cui dimensione è così grande che anche gli uomini più preparati riescono a coglierne solo una piccola parte. Ecco, il cambiamento climatico è una cosa del genere: è così vicino a noi che quello che possiamo cogliere ora è solo una frazione del tutto. Non riusciamo a farcene un’idea complessiva. E questo è un grave problema. Se non riusciamo a misurare il nostro impatto, come possiamo cambiare?

 Forse la grandezza stessa dell’oceano, paradossalmente, ci fa percepire l’inquinamento come qualcosa di lontano, di non nostro…

È come se non ci fosse più il senso dell’altrove. Un luogo come il Great Garbage, che è dall’altra parte del Pianeta, è abbastanza lontano da farci pensare che non esista. La tecnologia moderna ha fatto sparire l’idea classica di “lontano”: oggi misuriamo la lontananza in anni luce, non in chilometri. E invece, più viaggi, più ti rendi conto che il mondo è piccolo…

Quei cinque fiumi che ha navigato attraversano mondi molto diversi. Lei si portava dietro uno striscione: «We are on the same boat», siamo tutti sulla stessa barca. Ha visto qualche tratto comune nel modo in cui l’uomo tratta la natura nelle diverse culture?

Forse proprio la sensazione di vivere su un pianeta fatto di isole, che può ancora permettersi di percepirsi come enti separati l’uno dall’altro: l’isola Alex separata dalla tua, l’isola Trieste separata dall’isola Kanpur… Queste separazioni mentali, poi, producono effetti a catena su tutto. Se il mio mondo interiore è la somma di tante isole, per dire, non mi pongo il problema su quello che ci sarà domani, perché il domani è separato dall’oggi. L’ho visto chiaramente navigando sul Po…

Perché?

Il Po è il fiume di tutti, ma poi di fatto è il fiume di nessuno. Non ci si preoccupa di creare un’amministrazione unica, una gestione comune reale… Ma la stessa cosa l’ho vissuta in India. Un giorno ho incontrato un ragazzo che mi fa: «Dove vai con questa zattera?». «A Calcutta». «Ma è lontana!». Erano sì e no 300 chilometri, ma ne parlava come di un altro mondo. Ecco, se per quel ragazzo è lontana Calcutta, si figuri quanto è lontano l’oceano… È lì che io insisto: dobbiamo renderci conto che in realtà siamo tutti connessi con tutto il resto. È il principio di fondo dell’ecologia, che sottolinea la differenza tra l’elemento e la relazione. Non siamo monadi: siamo nodi di una rete. Se io ne tiro un lembo, all’estremità opposta succede qualcosa.

In questi anni ha visto cambiare la consapevolezza del problema?

Certo, oggi è molto maggiore. A me piace fare pensieri che superino anche il mio orizzonte temporale: amo viaggiare nel tempo, pensare il futuro. E da questo punto di vista, ho la sensazione che alla fine, con tutti i nostri limiti, saremo gli ignari creatori di nuovi modelli comportamentali, che avranno il loro effetto sulla mentalità e lo stile di vita di chi vivrà dopo di noi. Però bisogna mantenersi coraggiosi in queste scelte. Siamo tutti condizionati dal “qui e ora”: invece bisogna avere il coraggio di orientare la prua della nostra barca verso la destinazione che vogliamo raggiungere insieme, come specie umana, con la fiducia di essere sulla strada giusta. Senza ascoltare quelli che dicono «è impossibile».

Domanda classica: cosa possiamo e dobbiamo fare noi, là dove siamo?

Dobbiamo riscoprire la gentilezza. È una parola poco diffusa, quando si parla di ecologia. Ma serve. Abbiamo bisogno di uno sviluppo più gentile, che vive di una relazione diversa con l’ambiente. Bisogna metterci il cuore. Può fare una grande differenza. Dovremmo ridefinire i nostri stili, consumare meno. Passare dall’abbondanza alla sufficienza. Forse sono le solite raccomandazioni, anche un po’ banali. Ma troppo spesso finiamo per sottovalutarle.

Qual è la cosa che ha visto che le dà più speranza?

Il genio dell’essere umano, la sua capacità di risolvere i problemi. L’uomo per natura è perseverante, si adatta. È una caratteristica che ho incontrato ovunque, dal Sudamerica alla Cina. Sul Gange ho visto interi villaggi fatti di capanne di paglia e canne di bambù: arriva una piena e si porta via tutto, ma quando il fiume si ritrae, i contadini tornano lì con le canne e ricostruiscono. Oggi si parla molto di resilienza, ma è qualcosa di molto diffuso, capillare. E questo dà speranza.

Il prossimo viaggio?

Sto programmando una spedizione al Polo Nord, per il marzo 2025. Sarà un’occasione per parlare della fragilità nelle zone polari, del loro ruolo per regolare il clima sulla terra. Ma anche per raccontare una delle ultime spedizioni che l’uomo potrà compiere nel vecchio stile, sci e slitta, come i pionieri di fine Ottocento: il ghiaccio si riduce, è più fragile, si aprono canali. Un viaggio così è sempre più pericoloso.

E i fiumi?

Il progetto è concluso, per questioni di sicurezza. Il Niger doveva essere navigato a marzo dell’anno scorso, ma ci hanno sconsigliato di partire. E sugli altri fiumi cinesi, che sono i più grandi contributori all’inquinamento oceanico, pesa l’esperienza compiuta sul Fiume delle Perle: le autorità locali non vedono di buon occhio un’iniziativa come questa. Quindi abbiamo deciso di investire per creare un impatto sui fiumi già navigati. Entro la fine dell’anno speriamo di poter installare un primo sbarramento sul Gange che impedirà alla plastica di affluire sull’oceano.

Dove?

A Kanpur, in Uttar Pradesh. Era un progetto pensato per l’Italia, ma non abbiamo ancora trovato un’amministrazione disposta a seguirci. E allora cominciamo da lì. Alla fine, nessun luogo è davvero lontano…

di Davide Perillo