La sorpresa di essere vivi

Nel Sud del mondo sopravvivere è una notizia straordinaria, come racconta Domenico Quirico, inviato de La Stampa e scrittore, per due volte rapito in Libia.

 

Siamo troppi per un solo pianeta? Chi deve decidere se spostarsi da un angolo del mondo all’altro è un diritto? Ci sono ragioni più “giuste” di altre per migrare? Interrogativi che il Covid, con la sua scia di divieti e diffidenze verso l’altro, potenziale untore, ha solo acuito. Da almeno dieci anni viaggiano, sulle onde del Mediterraneo che accarezzano le coste italiane, non solo esseri umani di varie provenienze e destini, ma soprattutto domande. “Da come l’ho vissuta la migrazione è il fenomeno fondamentale del terzo millennio, ha già cambiato quello che siamo. Anche se ci illudiamo di averla in qualche misura tamponata e tenuta ai margini, in realtà ci ha già cambiato perché ci ha posto delle domande radicali: chi siamo e chi vogliamo essere. Se il continente o la parte del mondo della tolleranza dell’accoglienza, dei diritti, dell’uguaglianza che diciamo di essere, o se troviamo delle scuse, rifugiandoci nella xenofobia o nell’impossibilità di accogliere tutta la miseria del mondo. In realtà sono le domande che i migranti hanno imposto a noi, e non quella che noi poniamo ai migranti, l’elemento fondamentale di questa storia”.

La voce al telefono è quella di Domenico Quirico, giornalista e scrittore, inviato di guerra de La Stampa, due volte rapito dagli estremisti islamici in Libia mentre raccontava la guerra, la miseria, il viaggio dei migranti, parola quest’ultima da declinare rigorosamente al plurale.

“La migrazione è un fenomeno eterno, anche quella che conosciamo dal 2011 si presenta con caratteristiche sempre diverse, è cambiata infinite volte nei protagonisti, all’inizio quasi solo maschi, tunisini, fino ai borghesi in fuga dalla guerra siriana. Le ragioni delle migrazioni sono infinite E’ sbagliato parlare di migrazione al singolare: non c’è un migrante che assomigli a un altro, anche se partiti esattamente dallo stesso luogo. Le ragioni per cui ci si muove non sono catalogabili, se non in un’infinita quantità di ragioni personali: c’è chi parte per la guerra, chi per la fame, chi ha perso tutto, chi cerca un’occasione, chi vuole vedere altri luoghi, chi parte per un rito di passaggio”.

La nostra, di noi occidentali intendo, è una visione semplicistica?

La migrazione ha fatto nascere un popolo nuovo, il popolo dei migranti, a cui prima o poi bisognerà riconoscere una propria identità anche amministrativa. Ci sono credo 200 milioni di migranti nel mondo,  arrivano da luoghi diversissimi, con esperienze umane, personali, sociali, storiche molto diverse. Queste persone non sono più quello che erano prima, non sono più pakistani, eritrei, malgashi o tunisini. Sono migranti, quello che hanno provato, sopportato, subìto nel viaggio li ha trasformati in un’identità nuova. Prima o poi bisognerà indicare in qualche modo questo enorme popolo che non ha bandiere, non ha governi, non ha un territorio definito, ma ha una sua identità storica. Sul passaporto invece di italiano, turco o russo dovremo scrivere migrante. Quella è la sua identità e a quella dovremo riferire tutte le scelte politiche e amministrative che li riguardano. In questo senso la migrazione è un problema che soltanto un’organizzazione sovranazionale, purtroppo scarsamente efficiente come le Nazioni Unite, può risolvere, non i singoli stati e nemmeno l’Unione europea.

I cambiamenti del clima o le guerre dell’acqua quanto pesano nelle migrazioni? Se l’accesso all’acqua è un diritto dovremmo capire chi parte a causa della siccità.

In alcune parti del mondo – penso al Sahel, a vaste parti del Corno d’Africa – guerre e fattori climatici sono fattori determinanti. Ci sono luoghi della fascia saheliana, fascia che si allarga sempre più verso sud, in cui l’uomo è scomparso da tempo perché non c’è più la possibilità di coltivare, di allevare, di raccogliere perché non c’è più l’acqua. Luoghi del mondo in cui l’uomo convive da secoli con la siccità, escogitando una sapienza infinita nel resistere, ma in alcune aree neppure questa sapienza è più sufficiente. Il peso numerico delle popolazioni è aumentato, alla siccità tradizionale si sommano altri fattori, le guerre tribali, l’insicurezza che rendono impossibile quel che fino a ieri era possibile. Cito un luogo classico, il lago Ciad, che ogni anno si restringe, non tanto per un problema di rarefazione delle piogge, ma per l’aumento esponenziale delle popolazioni che ci vivono attorno. Sono arrivati due milioni di profughi dalla Nigeria del nord che fuggono dalle guerre dei Boko Haran e del califfato e asciugano il lago. Tra poco il lago Ciad non ci sarà più e qs comporterà delle conseguenze apocalittiche

Come possiamo immedesimarci in queste vite tanto diverse dalle nostre, vite che tu e altri giornalisti hanno raccontato vivendole in prima persona?

Non è possibile immedesimarsi. La mia esperienza, come quella di altri che hanno proposto al lettore di immedesimarsi nella tragedia che vivevano migliaia di persone, è sostanzialmente fallita. Nessuno si è immedesimato, nessuno ha fatto lo sforzo di aprire il rubinetto della pietà e della compassione. Il migrante non è qualcosa che sta al di là del mare, a cui possiamo dedicare la nostra distratta attenzione, mandando a soldi o biro perché imparino a leggere e scrivere. Il migrante è venuto qua e ci ha proposto le domande che dicevo in modo diretto e corporeo. Il risultato è stato la negazione della volontà di capire e ancor più dei sentimenti di compassione per queste persone. Al punto in cui siamo arrivati, anche noi che li abbiamo narrati dobbiamo rassegnarci a non parlarne più.  Ormai soltanto i migranti possono raccontare i migranti. Noi ne abbiamo perso il diritto.

Vedo qualche analogia con il racconto del Coronavirus. Le immagini dei camion che trasportavano le bare a Bergamo non ha impedito la negazione di quanto accaduto e non ha accresciuto, almeno non come ci saremmo aspettati, la responsabilità nei comportamenti.

Le tragedie le facciamo nostre quando ci riguardano direttamente. Se la pandemia fosse venuta in Congo sarebbe interessata a qualcuno? Abbiamo vissuto quest’angoscia collettiva per Ebola? Se le tragedie riguardano noi, le viviamo con estrema capacità di compassione. Il problema del XXI secolo è la rarefazione della pietà, una colossale indigestione di indifferenza per tutto quello che non ci tocca direttamente. Noi usiamo la parola tragedia sui giornali, in televisione, nei talk show, in modo sconsiderato e illegittimo. Per noi è tutto tragedia, persino che la Juve non vada in Champion. Vi porto io a vedere cos’è una tragedia vera, a un’ora di aereo da noi. Ma tutto ciò che non è nostro è diventato – perché fino a un certo periodo nella storia dell’Occidente non era così – qualcosa di estraneo.

Cosa è cambiato?

Il modo di vivere la consapevolezza dell’esistenza dei drammi umani. Consapevolezza che una volta avveniva attraverso la mediazione di luoghi e di strutture – i partiti, i sindacati, la Chiesa -, che trasformavano l’indignazione o la pietà individuale in fatto collettivo. Il rapporto con le tragedie degli altri oggi è un rapporto fra singoli. Apriamo il computer, vediamo la foto del bambino morto sulla spiaggia, chiudiamo il pc e finisce lì. Fino agli anni Settanta e Ottanta guardavamo in tv la carestia in Etiopia e l’angoscia degli altri diventava qualcosa di collettivo, azioni, cortei… Adesso tutto questo non esiste più. Tutto si esaurisce in modo onanistico all’interno di sé e del rapporto con un oggetto, il telefonino, il tablet, il pc che abbiamo davanti, e con cui al massimo comunichiamo con quel numero di persone con cui siamo in contatto, poche o tante, ma non porta a niente. Non è che la gente sia diventata più cattiva, è cambiato il rapporto con la realtà, la presa di coscienza della realtà che prima avveniva attraverso luoghi collettivi e che oggi si esaurisce in un rapporto puramente individuale.

Hai raccontato e vissuto la violenza, l’odio, la banalità del male di luoghi in cui per sopravvivere è necessario essere crudeli. Cos’è per te la speranza?

In un mondo in cui lo spazio del non diritto, del fanatismo, della prevaricazione si dilata, la speranza è nella tenace resistenza del diritto, che è quello che in Occidente incarniamo, in qualche modo. Attaccarsi ferocemente e disperatamente alla difesa del diritto può essere forse l’unica forma di speranza. In realtà questo imporrebbe delle conseguenze che spesso non accettiamo. Il caso Regeni è l’esempio classico di un luogo di non diritto che ha rubato la vita a una persona. La difesa del diritto non si può limitare alla chiacchiera, alla richiesta di verità, al mercanteggiamento sinistramente grottesco a cui ci siamo prestati con i governi italiani, tutti. Bisogna pagare un prezzo, la rottura dei rapporti diplomatici con l’Egitto, la denuncia della dittatura egiziana alla Corte internazionale penale per l’omicidio di uno straniero, la rinuncia ai vantaggi anche economici. Non parlo solo di noi italiani, ci sono mille casi. Gli Stati Uniti sono l’esempio di un paese che si proclama il gendarme del mondo in nome del diritto e che poi tiene rapporti con sudici personaggi che ogni minuto quel diritto calpestano. Se uno vuole avere speranza, deve trarre le conseguenze del proprio esser fedele al diritto e pagarne il prezzo.  Se non lo fa, viene meno anche la speranza perché il mondo del non diritto vince.

Ma quando ti svegli la mattina, cosa ti dà la spinta per cominciare la giornata?

Un’immensa curiosità per tutto quel che accade attorno a me. Non ho tempo per deprimermi, perché ci sono mille cose che voglio capire, vedere, sentire. Questa è l’unica qualità di uno che fa il nostro mestiere, la curiosità, che non deve mai essere arginata dal cinismo, dall’indifferenza, dal “l’ho già visto”, l’ho già sentito, accadrà sempre così. Ogni fatto deve essere sempre come la prima volta per noi, anche se l’abbiamo già affrontato 10mila volte e in un luogo siamo già stati mille volte.

C’è una storia positiva, una faccia che ti porti dentro in mezzo a tutta la negatività che hai visto, che hai vissuto, che ti ha toccato?

Il migrante maliano incontrato nel Centro di accoglienza di Caro di Mineo. Era l’unico sorridente in mezzo a centinaia e centinaia di “ospiti”, che invece erano tristi, arrabbiati, furenti, preoccupati.  Era uno dei pochi che poteva avere una cinquantina d’anni. Alto e magro come tutti gli uomini del Sahel.  Manifestamente felice di essere lì, non perché avesse avuto il permesso di soggiorno, probabilmente aveva già saputo che la sua richiesta di rifugiato politico era stata respinta e avrebbe dovuto aspettare lì un altro anno per il ricorso. Gli chiesi perché fosse così evidentemente allegro. “Perché sono ancora vivo. Domani mattina so che sarò ancora vivo, mentre nel mio paese questa certezza non l’avrei mai avuta”.   Non c’era nessuna ragione pratica perché fosse felice. Nel suo paese se fosse arrivata una banda di predoni o di jihadisti mentre dormiva, il mattino dopo non si sarebbe svegliato. Invece lì era al sicuro, anche se in una condizione molto precaria. Il sopravvivere per milioni e milioni di uomini è il risultato più straordinario della giornata: essere su questo pianeta.

Forse la cosa che abbiamo rimosso di più.

Noi nascondiamo la morte. La pandemia, come i migranti, ci ha messo di fronte a qualcosa che noi non vogliamo vedere, la necessità di morire, lo scandalo della morte.  Invece per queste persone è la normalità.

Di Vanna Toninelli

 Articolo pubblicato sul numero 2 di Riflessi, giugno 2021